mercoledì 16 aprile 2014
L'Utero di Satana
Tratto da Satan's Womb/L'Utero di Satana di Pier Giorgio Tomatis
Capitolo 2/
Il Dottor Spencer/
Raggiunto il proprio obiettivo, i quattro uscirono dal mio ufficio e dall’edificio. Quello più anziano, l'unico ad avere parlato, mi strinse la mano e mi sorrise. Compresi che si trattava di una condanna a morte. Mi chiusi nel mio ufficio e non ne uscii fino a tarda sera. Se non fosse stato per l’insistenza e le rassicurazioni del mio vice vi sarei rimasto per tutta la settimana. E anche oltre.
Invece, feci lo sbaglio di accettare il suo consiglio e di seguirlo. Andammo verso i garages. Salii sulla sua auto. Lui mise in moto, manovrò per uscire in retromarcia ed affrontare il traffico cittadino. Prendemmo per Congress Street, poi la High e Cumberland, senza particolari sussulti. Non mi attendevo che quella giornata terminasse con un nulla di fatto. Non mi sarei aspettato, però, tutto quello che seguì. Una serie di spari mi riportò drammaticamente alla realtà. Feci appena in tempo ad udire le detonazioni che vidi Jeff perdere il controllo dell'auto, folgorato da almeno tre proiettili. Gli schizzi di sangue del mio amico, nonché braccio destro, mi bagnarono i vestiti e mi ricoprirono la faccia. Brandelli di carne si appiccicarono su diversi punti dell'auto. Sbandammo e finimmo per sfondare la vetrina di un concessionario. Evitammo di investire qualcuno per pura fortuna.
Nel momento dello scontro, violento, contro una delle auto in esposizione, si misero in funzione l'impianto antincendio del locale, la sirena d'allarme e l'air-bag posto sul lato guida. Il mio, fortunatamente, non si aprì. Jeff aveva portato recentemente il suo mezzo a riparare ed evidentemente il lavoro non era stato fatto a regola d’arte. Avevo sbattuto violentemente la fronte sul cruscotto e sanguinavo ma, seppur dolorante, cercai di riprendermi. La tempestività poteva forse salvarmi la vita. Non c'era tempo da perdere. I miei assassini stavano, sicuramente, cercando di scoprire se io ero ancora vivo. Mi slacciai la cintura. Presi un fazzoletto e me lo annodai sulla fronte sanguinolenta, come se fosse stato una bandana. Aprii la portiera e mi feci largo tra i detriti per raggiungere l’uscita posta sul retro, il più velocemente possibile. Avevo appena chiuso la pesante porta di metallo alle mie spalle, quando sentii una raffica di mitra fare a pezzi il legno dei mobili, il ferro e parte del muro che mi stava separando dai miei aggressori. Ansimando, in preda a cieco terrore, corsi più in fretta che potevo. In strada, mi spostai a caso, cambiai diverse volte isolato, svoltai, procedendo a zig-zag, allo scopo di non dare punti di riferimento ai miei inseguitori. Mi acquattai dentro un minimarket e ne uscii solo dopo che furono trascorsi almeno una decina di minuti. Trovai ciò di cui avevo bisogno. Salii di corsa su di una corriera diretta ad Oakland. Cercai di camuffarmi come meglio potei, fra i sedili di coda. Se fossi stato fortunato avrei potuto scamparla, salvare la mia vita. Purtroppo, la dea bendata, anche quel giorno, aveva deciso di voltarmi le spalle.
Una nuova raffica di mitra falciò la vita dell'autista e di tre o quattro passeggeri, seduti nelle prime file. Le lamiere dell'autobus sembravano contorcersi e fischiare per la velocità che l’automezzo stava prendendo. Un marciapiede ed un’automobile in sosta deviarono la sua folle corsa. La corriera si piegò su di un lato e proseguì la sua marcia raschiando la parete laterale sinistra sulla carreggiata. Le scintille provocate dall'automezzo si innalzarono fino ad un'altezza di sette metri e mezzo. Io mi strinsi forte ai sedili e con calci, pugni e la forza della disperazione cercai di sfondare il parabrezza alle mie spalle. Ci riuscii. Probabilmente cedette per le sollecitazioni cui era stato sottoposto fino a quel momento. Ma non c'era tempo per scoprirlo. Sgattaiolai all’esterno e mentre l’autobus stava ancora strisciando sull’asfalto, mi lanciai verso un lampione e poi sul tettuccio di un’auto in sosta. Non ero certamente salvo. Anzi, essere uscito allo scoperto faceva di me il perfetto bersaglio per un tiro a segno.
La fortuna, che mi aveva dimenticato per tutta quella giornata, decise che era arrivato il momento di aiutarmi. Il suono di una sirena della Polizia e poi di un'altra, e un'altra ancora, suggerì ai miei inseguitori che fosse giunto il momento giusto per prendersi un caffè. Sapevo che avrei guadagnato solamente pochi minuti. Ero ben intenzionato a farmeli bastare. Scesi dall'auto e mi misi a correre in direzione di casa mia. Volevo raggiungere la mia auto. E poi, chissà, giocarmela per fuggire lontano. Pensavo di poterli seminare così. A piedi mi sentivo un bersaglio troppo facile, una preda inerme. Non smisi di correre un solo istante.
Avevo una paura da morire. E l'adrenalina che scorreva a fiumi nel mio corpo sembrava avermi messo le ali ai piedi. Quando arrivai nei pressi di casa mia, quella stretta morsa che si era avvinghiata alla mia gola sembrò allentarsi. Fu una sensazione che durò solo per qualche brevissimo istante. Poi, tutto tornò come prima. Peggio, forse. Sufficiente a riempirmi di terrore. Vidi la mia automobile esplodere. Una colonna di fuoco e di fumo si innalzò per parecchi metri. Non feci in tempo a riavermi dallo spavento che notai un uomo dai capelli lunghi e mossi, con un paio di baffoni, chiaramente posticci, e degli occhiali da sole ben calati sugli occhi, mentre usciva dall'ingresso principale.
Una decina di secondi più tardi, la mia casa si ridusse ad un cumulo di macerie. Il pezzo più grande aveva le dimensioni di una zolletta di zucchero. La mia casa. Migliaia di dollari erano sparsi sul selciato, anche a distanza di un miglio. Una mobilia in stile, i miei quadri di Edgar Degas, la collezione di Rolex d'oro, erano stati completamente disintegrati. La mia auto, una Aston Martin originale, stava bruciando davanti ai miei occhi smarriti. Il giardino, che curavo in ogni più piccolo dettaglio, assomigliava ad un campo di addestramento militare. Oscar, il mio robot giardiniere, non esisteva più. Tutto venne avvolto da una nuvola di fumo. Anzi, ogni mia proprietà era diventata parte di quella colonna di scuro, acre, vapore irrespirabile. Non riuscivo più a pensare, tale era l'angoscia che provavo.
Avevo fatto uno sgarro alla malavita e quella era gente che non perdonava. Il mio torto era stato quello di incappare in un affare finanziario con il quale delle persone disoneste stavano cercando di farsi un lifting, un restyling, un vernissage, a scapito di tanti altri, onesti risparmiatori, i quali erano all'oscuro di tutti questi loschi traffici. Ed ora avevo perduto quasi ogni cosa. Il solo fatto di aver incrociato la strada con questa gente, mi era già costato centinaia di migliaia di dollari. E la mia vita stessa correva seri pericoli.
Restai rintanato all'interno di uno scantinato, sempre più confuso sul da farsi. Guardai bene i diversi attentatori che mi avevano inseguito per mezza Portland, seminando morte e distruzione. Studiai il volto di coloro che mi avevano fatto saltare la casa e l'automobile e che, con mio grandissimo dolore, avevano ucciso il povero Jeff. Nessuno di loro aveva un volto che mi fosse in qualche modo familiare ma tutti delle facce poco raccomandabili. Restai fermo, quasi immobile, fino a quando sopraggiunse la notte. La stanchezza si fece sentire ed io sprofondai in un lungo e tormentato sonno.
Sognai particolari inquietanti di quella giornata. Mi trovai faccia a faccia con quei gaglioffi, impugnai una pistola e sparai. Le pallottole sibilarono veloci verso i corpi dei componenti della banda. Tutti caddero sotto i colpi della mia arma, tranne l'uomo con gli occhiali da sole che aveva fatto esplodere la mia bella casa. Egli continuava ad avanzare verso di me, incurante delle pallottole che sembravano schivarlo. Avanzava, avanzava, facendo crescere in me una sensazione di angoscia, di puro terrore. Ma perché? Perché non mi voleva lasciare da solo ed in pace? L'uomo si arrestò a circa mezzo metro da me. Afferrò la mia arma, estrasse tutti i proiettili e li gettò in terra. Fatto ciò si mise a ridere in modo grossolano e volgare. Volevo che la smettesse, che la piantasse di ridere, di importunarmi, di attentare alla mia vita, di distruggere le mie cose. Fu allora che mi risvegliai.
Era già mattina ed io ero impaurito e madido di sudore. L'incubo onirico era finito. Ora ricominciava quello reale. Rimasi nascosto per diverse ore e nella mia mente continuavano a susseguirsi le immagini della giornata precedente. Lo choc che avevo vissuto era senza precedenti. Attesi che si facesse pieno giorno. Con la luce del sole, lo scantinato non poteva più fornirmi il necessario riparo. Correvo il rischio di essere notato. Troppa gente nel quartiere si affaccendava nella pulizia dei prati o nell’eterna ricerca di un tassì per recarsi al lavoro. Cercai di ripulirmi e di ricompormi.
Mi incamminai, alzando il bavero della giacca e fingendo di essere un ubriacone infreddolito. Barcollavo. Non mi era difficile farlo. Avevo dormito in uno scantinato, su di un pavimento di cemento, all’addiaccio, per un’intera nottata. Mescolarmi tra la gente sarebbe stata la cosa più facile che avrei potuto fare quella mattina. La prima della mia nuova esistenza. Dovevo trovare una soluzione. La mia vita, così come l’avevo sempre idealizzata, si era spezzata ma mi sforzavo di cercare di continuare ad andare avanti. Riflettei sul da farsi. Quale destino poteva essere riservato ad una persona che come me aveva perso quasi tutto ciò che aveva e che, onestamente, stava vivendo in uno stato di profondo terrore?
Furono i suoni del traffico metropolitano a suggerirmi una scappatoia se non definitiva, certamente intelligente. Mi ricordai di una persona, in particolare. Faceva il medico e non ci eravamo mai incontrati prima. Eppure, sapevo molte cose di lui. Sui giornali avevo letto diverse notizie che lo riguardavano. Fondamentalmente, egli era un soggetto capace di esercitare un forte richiamo sui giornalisti che scrivevano per riviste e giornali scandalistici di poche pretese.
Si chiamava Larry Spencer e, forse, sarebbe stata l'unica persona che mi avrebbe aiutato e di cui mi potevo sinceramente fidare. Era un esile trentenne che trascurava di curare i propri capelli e la barba. Aveva l’abitudine di tener legati i primi con dei lacci elastici. Il dottor Spencer, Larry, era il medico più atipico della città. Ex hippy, come tanti di loro, odiava così intensamente la tecnologia che non poteva esistere sul mio personal computer, o note-book, una sola informazione che lo riguardasse. Molto semplicemente, egli non aveva un cellulare, un indirizzo di posta elettronica, nemmeno un immobile. Abitava sporadicamente presso l’abitazione della sorella. Tuttavia, non era quasi mai rintracciabile. Passava le notti a casa di questa o quella amante. Finché durava. Persino il suo studio era quanto di più anticonvenzionale si fosse mai visto nella città di Portland.
Larry visitava i suoi pazienti in un camper giallo che parcheggiava vicino a Raleigh Square. Era il solo modo per raggiungerlo e per questo motivo mi sentivo al sicuro. I miei nemici non potevano nemmeno essere sfiorati dall'idea che potessi rivolgermi a lui. Trovai degli abiti smessi in un cantiere edile e li scambiai, poco onestamente, con i miei. Alle tre del pomeriggio, all’incirca, il mio orologio da polso si era guastato con l'incidente del pullman e non potevo esserne troppo sicuro, mi trovai fuori dal suo camper e bussai alla portiera. Il Dottor Spencer l’aprì di slancio. Era nel suo stile ma questi dettagli non mi interessavano più in alcun modo. Mi riconobbe all'istante, diede un'occhiata nervosa dietro le mie spalle per vedere se ci fossero altri pazienti, pensai, e poi mi invitò ad entrare.
Dai, entra. Svelto. Disse il dottore. Nonostante non mi conoscesse affatto. Le formalità non erano pane per i suoi denti. Ero capitato proprio nel posto giusto.
Mi sollevò quasi di peso e mi trascinò all'interno del camper. Cercò delle bevande nel carrello minibar e preparò due bicchieri. Uno me lo porse dopo avervi versato del succo d’arancia, credo. L'altro lo riempì con della soda lemon e continuò a farlo ogniqualvolta si svuotava. Da quel che sapevo il dottore non amava gli alcolici. Lo si poteva intuire dal fatto che nel minibar tutte le bottiglie di whisky o liquore erano piene. Il fatto che, la mattina presto, prendesse qualcosa da bere, seppure di analcolico, era dovuto all'agitazione. Avevo dimenticato che quello che mi era successo avrebbe sconvolto chiunque. Cercai ugualmente di spiegargli l'accaduto.
So tutto. Disse interrompendomi. In città non si parla d'altro. Quello che è successo ieri è costato il posto a diversi funzionari della Polizia. E ad altri sta prudendo maledettamente il culo. Certo, si sa che ti sei fatto dei nemici, che sei in una barca di guai e che, lo posso confermare, sei ancora vivo. Quel che non si sa è chi ce l'abbia con te e perché. Devi dei soldi a qualcuno? Domandò incuriosito.
No. Fu la mia laconica risposta. No. Ripresi. Ho accidentalmente scoperto una truffa finanziaria in cui sono coinvolti autentici boss del crimine. Provai a spiegare.
Il Dottor Spencer bevve avidamente dal suo bicchiere di soda. Andò nel frigo, prese un’arancia, la tagliò in più parti e ne mise una nel suo bicchiere. Lo riempì un'altra volta, poi sospirò.
È peggio di quel che pensassi. Che intendi fare? Domandò, denunciando la sua più sincera preoccupazione.
Mi hanno distrutto l’auto, la casa, la mia azienda, che vuoi che possa fare? Risposi, non trattenendomi dal fare uso di puro sarcasmo.
Ti costituirai? Sì, cioè, andrai alla Polizia per chiarire tutto? Continuò ad incalzarmi il dottor Spencer.
È una buona idea? Quelli hanno più appoggi tra i poliziotti che tra i politici... Suggerii amaramente.
Questo è anche vero ma non vedo molte alternative. Concluse obiettivamente Larry e non mi riusciva di dargli torto.
Io volevo chiederti… Cercai di riempire i polmoni di aria, mentre mi preparavo a supplicare il dottore… se potevi ospitarmi per un po', almeno fin quando le acque non si saranno calmate. Dopo, deciderò cosa fare.
Mmh... perché hai pensato a me? Chiese Larry, mentre, con la mano destra, stringeva nervosamente il bicchiere di soda lemon e arancia amara che sfregava sul tavolo di legno.
Hanno avuto accesso al mio computer. Ogni persona che mi ha avvicinato anche solo per una volta, ed è finito nel mio database, rischia quasi quanto me. Tu sei l'unico che conosco, e di cui mi fido, che non ha legami col mondo. Non potranno mai rintracciarti. Risposi in assoluta onestà.
Magari mettendo sotto torchio qualcuno che compare sul tuo database... Suggerì sibillinamente il dottor Spencer.
No. Noi due ci conosciamo ma più per fama che per altro. Ho saputo quanto c'è da sapere su di te dai giornali. Sei una tipica leggenda metropolitana. In carne ed ossa. Nessuno che conosco può fare il tuo nome senza fare anche quello di Madonna, Brad Pitt, Michael Chrickton. Per me sei l'equivalente di uno di loro. Conclusi.
Ti ringrazio. C'è chi mi definirebbe in modo diverso ma credo di avere capito che nel tuo caso voleva essere un complimento. Disse Larry, non mascherando una certa punta di paradossale orgoglio nel sentirsi paragonare a quei personaggi che nella sua vita aveva sempre cercato di evitare, anche solo di assomigliare.
Sono disperato Larry. Lo pregai. Non so dove andare. Non so cosa fare. Probabilmente, avranno messo una microspia in tutte le stazioni di Polizia da qui fino a Denver. La mia amarezza era pari alla mia lungimiranza.
Rilassati. Non ho detto che non ti aiuterò. Solo, ciò che mi chiedi presuppone un impegno veramente fuori del comune. Disse il dottore prima di ingurgitare ancora il suo dannatissimo intruglio analcolico.
Anche per questo sono venuto da te. Dissi con un filo di voce. Larry deglutì.
Nonostante una leggera riluttanza nel condividere il suo camper con un perfetto sconosciuto, il Dottor Spencer accettò di fornirmi riparo ed aiuto fino a che le acque non si fossero calmate. Quando riceveva i pazienti io non mi facevo vedere. Per lo più, gironzolavo per la periferia della città, badando di mimetizzarmi tra la gente senza farmi riconoscere. Poi facevo ritorno e tutto ricominciava.
Le settimane che seguirono scivolarono via nella calma più assoluta. Non accadde nulla di rilevante. Io cercai di ricuperare la serenità perduta e di fare chiarezza, per quanto mi fosse possibile, su tutto ciò che era accaduto. Evitai accuratamente di informarmi sulla mia situazione per mezzo della rete. Ricorsi a metodi più classici. Divenni un accanito consumatore di carta stampata. Larry accettò di buon grado la mia permanenza nel camper e dopo un po’ di tempo ci fece persino l'abitudine.
La mia collocazione all'interno del modus vivendi del dottore era certamente provvisoria. Era la paura, l'insano terrore dell'ignoto, la pericolosità dei miei avversari, che faceva scorrere i giorni senza che una soluzione al problema venisse, da me, cercata e trovata. Ero un imprenditore che operava nel campo finanziario. Guadagnavo soldi facendo evitare alla gente dei salti nel buio. Lentamente, questo modo di essere e di pensare si era connaturato con il mio carattere.
La mia principale dote era diventata l'analisi, l'obiettivo la sicurezza, il difetto l'azzardo. Ancora una volta a tirarmi fuori dalle secche, fu un aiuto esterno. Un giorno, facendo ritorno al camper, il dottore spezzò questo monotono grigiore con una notizia avuta da un suo cliente. Larry non stava più nella pelle dalla voglia di raccontarmelo.
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