lunedì 13 luglio 2009

ZU’ TURIDDU


Lo chiamavano “ U ZU’ TURIDDU “, ma il suo nome era Salvatore Eoliano. Salvatore è un nome molto diffuso nella marineria siciliana. Viene imposto dai genitori quasi per accompagnare il neonato sino dal Battesimo, con un augurio di salvezza, sapendo, già da subito, che quel bambino, nuovo nato di generazioni di pescatori, trascorrerà la sua vita sul mare.
Il mare, si sa, è amico ma può essere anche nemico, terribile nemico, animato spesso da venti impetuosi ed impietosi.
Salvatore era stato sempre per mare, ma ora che era incanutito e la sua pelle era riarsa dal sole e dal sale, privo ormai della forza di spingere i remi od anche soltanto di reggere la barra del timone, trascorreva le sue giornate a terra. Brevi scambi di parole con i coetanei, lo sguardo vagante da un’isola all’altra o intento a seguire il lento volo dei gabbiani perso fino all’orizzonte, oltre l’orizzonte.
Conosceva alla perfezione gli umori del cielo, sereno o minaccioso sopra le nuvole; conosceva l’agire dei venti a seconda della direzione da cui soffiavano; conosceva il mare nel suo variare dei colori, dal blu notte all’azzurro e al verde più improbabile; per questo, dall’alto della sua vasta esperienza di pescatore ottantenne, era prodigo di consigli ai giovani che si avventuravano in mare e che lo ascoltavano con deferenza. Ricordava il tempo in cui era stato giovane e in paese lo chiamavano Turiddu, ma ora, da vecchio, era diventato “u zu’ Turiddu”, dove quel “zu’” sta per “zio”, in segno di rispetto e di affetto .
Di cognome si chiamava Eoliano. Una parola che comprende tutto: terra mare e cielo; perché “ eoliano “, come aggettivo, significa esser nativo delle isole Eolie . La sua cara terra, le isole Eolie, così chiamate in memoria di Eolo, il dio dei venti, figlio del dio del mare Poseidone.
Le isole Eolie, le “sette sorelle”, le “sette perle”, come amano chiamarle gli stessi eoliani, sono parte di un mondo cristallizzato nel tempo, che affonda le radici in un passato remotissimo, nel mito, e pur tuttavia protende le braccia verso il futuro .
Zu’ Turiddu, metafora di tale passato e di tale futuro, d’estate veniva circondato, sulla spiaggia di bianca pomice, dai tanti turisti in vacanza che in lui vedevano il saggio, il mito. Il simpatico sapiente pescatore, seduto su uno sgabello di legno a tre piedi, riparava le reti da pesca e con piacere raccontava le storie di quelle terre. Soprattutto era amato dai bambini, quelli dell’ isola e quelli che d’estate arrivavano per le vacanze; era per loro il “ cuntastorie ”, erede degli aedi greci e dei menestrelli provenzali.
Nelle lunghe notti di pesca, alla luce della lampara, zu Turiddu aveva avuto come graditi compagni i libri della biblioteca del paese. Aveva letto quanto più poteva sulla sua amata terra ed ora poteva raccontare, affascinando il suo uditorio, quanto lui stesso aveva vissuto e cosa altri avessero scritto della Sicilia e delle isole Eolie in particolare.
La sua maniera di raccontare conteneva gli echi della cultura greca, della parlata levantina dei bizantini, della luce fantasiosa dei musulmani: era, insomma, la sedimentazione storica della cultura siciliana.
“ Lo sapete che anche Omero nell’ Odissea ha parlato di queste isole? Ha scritto che Poseidone, il re del mare che i latini chiamavano Nettuno, aveva qui la sua reggia di nuvole e teneva la sua corte di zèfiri e raffiche e bufere”.
E così iniziava i suoi racconti e narrava delle sette stupende isole che fronteggiano Capo d’ Orlando, sulla costa della Sicilia principiando proprio dalla greca Agatyrso, cittadina che ebbe poi nome da Carlo Magno in onore del suo paladino più amato, Orlando.
Goethe reduce dal suo viaggio in Italia , aveva scritto che “ l’Italia senza la Sicilia sarebbe stata poca cosa”: Zu Turiddu soleva ripetere che la Sicilia senza le sette perle delle Eolie sarebbe stata una regina senza corona .
Zu Turiddu amava parlare di Stromboli, spiegando alla gente che in greco Strongyla vuol dire trottola e che questo nome era stato dato all’isoletta per via del suo continuo sussultare vulcanico, e venuto buio soleva slegare la sua barca per accompagnare al largo i turisti perché potessero assistere dal mare al meraviglioso spettacolo della “Sciara del Fuoco”. Quando, nel buio del cielo notturno lo Stromboli eruttando lava e lapilli protende le sue braccia di rosseggianti lave nel mare ribollente e mai gli spettatori ne rimanevano delusi.
Citava che Alessandro Dumas scrisse di Stromboli, assistendo ad una eruzione :
“questa notte è una delle più curiose che abbia passato nella mia vita …..
non potevo staccarmi da quel terribile e magnifico spettacolo .
Zu Turiddu descriveva poi Alicudi, la greca Erycusa, ricca di strane sculture inventate dalla lava nel tuffarsi nel mare,“ i perciati ed i fili “ ovvero scogli che paiono ponti e colonne, ed insegnava che Filicudi, Phoenicusa, come dice il suo stesso nome è ricca di felci.
Le piccole folle sulla spiaggia sembravano non stancarsi mai di ascoltare il vecchio pescatore che di ogni parte della sua terra conosceva la geografia, la storia ed il mito.
Diceva ancora di Panarea, che un tempo si chiamava Euonimos e quindi Panarion, che vuol dire distrutta, a ricordo di uno spaventoso sisma che della grande isola fece un corteo di isolotti e scogli. E di Lipari, così chiamata dal re argolide Liparo, che vi aveva fondato una città prima ancora che il suo conterraneo re Ilo fondasse Troia.
E parlando di Lipari, con orgoglio, vantava che è l’isola patria del vino Malvasia, fatto con uve liquorose di succo assorbito dalle radici nelle lave. Di questo buon vino Guy de Maupassant scrisse :
“sembra sciroppo di zolfo . E’ proprio il vino dei vulcani , denso , zuccherato , dorato e con un tale sapore di zolfo che vi rimane al palato fino a sera : il vino del diavolo “ .
A questo punto dei suoi racconti, spesso, si versava un bicchiere, riposando un momento e sospirando e dopo averlo gustato, con calma, schioccava la lingua e continuava il suo racconto.
Di Salina descriveva i sei vulcani, parlava delle genti d’origine africana che la abitarono cinque millenni addietro, dei pirati che ne fecero una loro base nel medioevo, del fascismo che la aveva eretta a luogo di confino per gli oppositori del regime. Narrava, al suo attento uditorio, dell’isola di Vulcano, scoglio lanciato nel Mediterraneo dall’immane esplosione vulcanica dell’isola greca di Santorino in epoche mitiche. Rammentava le continue emissioni di fumi lavici, le putizze che mentre cammini sulla spiaggia ti soffiano sotto i piedi e se non hai le scarpe ti bruciano la pelle e che fanno ribollire l’acqua del mare, l’odore acre di zolfo che impregna tutto l’isolotto. Zu Turiddu non tralasciava di citare, infine, Strombolicchio, l’isolotto filiazione della maggiore Stromboli.
Quando si trattava delle “sue” isole non dimenticava nulla, nonostante la memoria, come amava dire, non fosse più “sua amica”.
Nel parlare mescolava i dati storici e tutto ciò che aveva letto, ai suoi ricordi di vita vissuta ed affascinava grandi e bambini raccontando loro di sue avventure accadute realmente o fantasticate o metà e metà.
Con enfasi raccontava di quando nella sua piccola rete per pesce azzurro era incappato nientemeno che un pescecane che aveva mangiato il pesce appena pescato, aveva lacerato la rete e per poco non era riuscito a rovesciare la sua barca. Narrava di quando un fortunale improvviso e imprevisto lo aveva strappato ai remi e lo aveva gettato in mare, dove era sprofondato fino a un pilastro della Sicilia, sorretta da quel Colapesce, mitico mezzo uomo e mezzo pesce, che si era tuffato per ripescare un anello lanciato in mare dalla regina. Ed ancora parlava di quelle Sirene il cui canto lo distraeva dalla pesca e dalla rotta, sicchè gli toccava poi ritornare a terra dopo essere stato al largo tutta la notte, a reti vuote .
Riversava, nelle menti degli attenti ascoltatori, l’immagine di un polpo, un enorme polpo, che in una notte di luna nuova si era innamorato della lampara accesa a poppa della sua barca, l’aveva abbracciata, strappata al legno, avviluppata nei suoi tentacoli, trascinata sul fondo del mare. Diceva che là, in quel tratto di mare, ancora adesso nei noviluni sembra diffondersi come un chiarore di lampara dal fondo, mentre salgono alla superficie miriadi di bollicine. Era il suo modo di descrivere altrimenti delle chiare manifestazioni di vulcanesimo sottomarino.
A volte raccontava di quando le due spiagge di Salina, Cala Bianca di pomice e Cala Nera di lava, divennero rosse, perchè dal mare era salita una strana marea che fuggiva dall’acqua surriscaldata da rivoli di lava incandescente, si trattava di un esercito di gamberi e di paguri, affluiti a migliaia, marciando compatti. Ogni paguro portava nelle chele due perle e le ragazze dell’isola, liete dell’inatteso dono, se ne fecero collane .
Quando l’estate volgeva al termine ed il mare aveva toni di verde cupo e di grigio, con piccole onde coronate di creste di bianca schiuma, i villeggianti ritornavano alle loro città portando nel cuore e negli occhi le immagini dolci e inenarrabili di quelle spiagge, di quel mare; i bambini dell’isola riprendevano a frequentare la scuola …. e Zu Turiddu rimaneva solo, sul piccolo molo del porticciolo.
Ed un giorno, un giorno qualunque di quell’ autunno, venne il tramonto, venne la sera, era una notte di luna piena. Zù Turiddu, immerso nella sua solitudine, piena di confusi ricordi e di inespressi desideri , avvertì più forte che mai il richiamo del mare, la musica dello sciabordio delle onde e lo squittire dei gabbiani: le voci di quel mare che per tutta la vita era stato il suo mondo .
Salì sulla sua barchetta, accese a prua la lampara, sciolse l’ormeggio, spiegò una piccola vela latina, sedette a poppa impugnando come uno scettro la barra del timone .
La brezza di terra entrò nella vela, sospinse la barca al largo ; lui non si volse mai a guardare indietro le luci del paese che si affievolivano nella nebbiolina, né il brillare intermittente dei fari che suggerivano le rotte: guardava solo avanti, la luce degli occhi spersa lontano …. lontano ……
Era ormai notte: il vento tacque, la vela cadde, la lampara si spense ….

I pescatori delle isole Eolie, per indicare il punto
dell’ orizzonte dove mare e cielo si confondono
sotto lo splendore della stella polare, non dicono
parole come settentrione o tramontana, sussurrano:

“unne si perse u Zù Turiddu” *
• dove si perse lo zio Turiddu

“ I CONFINI DELL ’ ANIMA NON LI POTRAI
MAI TROVARE , PER QUANTO TU PERCORRA
LE SUE VIE, COSI’ PROFONDO E’ IL SUO LOGOS .”
(Aristotile)

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